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senti.menti (Nevio)

BARCH: proprietà Dolomiti Hub
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Nei secoli passati

Nei secoli passati, almeno fino alla fine dell’800, quando violente brentàne distrussero le segherie, Fonzaso era al centro di intense attività legate al legname proveniente dai boschi del Primiero. Lo storico Gigi Corazzol ipotizza che la fitta presenza dei barch nella piana di Fonzaso possa essere ricondotta alla necessità di disporre di notevoli quantità di fieno per alimentare i bovini che trasportavano le grandi partite di legname. L’aumento della presenza di questi fienili con tetto mobile è da ricondurre anche all’incremento dell’allevamento bovino nell’800. I barch sono presenti in altre zone del Feltrino e della Valle del Brenta e inoltre sono attestati nella Val d’Aveto in Liguria. Il percorso Barch Art, partendo da un’area industriale, si snoda in un contesto rurale dove sono ancora in parte leggibili i segni di una passata economia agricola. I declivi che circondano la zona, ora ricoperti da boscaglia, erano intensamente coltivati a vigneto, almeno fino agli anni 60 del 900. Il vino, prodotto da uve come la Pavana e la Bianchetta, era oggetto di esportazione verso le altre zone del Bellunese e della Val Brenta.

Anche l’allevamento dei bachi da seta (cavaliér) vanta una lunga storia in questi luoghi, come attestano i numerosi grandi gelsi (morèr) che si incontrano lungo il percorso. La gente di Fonzaso e Arten ricorda: “I vivea tuti tei cavaliér, tel vin e tei fasoi”. In realtà la dimensione economica era più complessa e, almeno a partire dall’Ottocento, l’emigrazione temporanea e permanente ebbe un ruolo fondamentale per riequilibrare una situazione di marginalità economica, legata anche all’incremento demografico.
I barch, dal prelatino *barga–cumulo, covone, sono segni superstiti di una filiera basata sulla “coltivazione” dell’erba dei prati e dei pascoli. La ricerca dell’erba sfruttava la dimensione verticale del territorio e la conseguente maturazione scalare della vegetazione. La mobilità di uomini e animali tra fondovalle e montagne circostanti determinava precise forme di residenzialità e di organizzazione sociale.

I barch, come le méde, allestiti nei luoghi di produzione o di consumo del fieno, erano discosti dalle case per evitare incendi, frequenti anche in passato al punto da spingere la popolazione a dotarsi di un guardiano del fuoco. San Michele e le croci sopra ogni barch garantivano protezione contro fulmini o incendi dolosi. Questi barch erano dei rifugi, piccole case sparse sui prati e sui monti, pronte ad accogliere fieno profumato in tutte le sue varietà e colori (fén, ardìva, terzanìn, quartalìn), un fieno vivo capace di bóier (bollire), di scaldare. Erano adatti a ospitare un’umanità varia che si muoveva per sopravvivere, come i pastori di Lamon e i numerosi ambulanti che fino agli anni 50-60 del ‘900 percorrevano i nostri territori e che lasciavano traccia del loro passaggio nei cuz, cioè i giacigli ricavati sistemando alla meglio il fieno.
Erano il rifugio durante i temporali per chi lavorava nei campi e giacigli per la notte a disposizione di uomini e donne impegnati in montagna con la fienagione. Furono per tre notti di fila, come ricorda Francesco Bof, il letto per intere famiglie in concomitanza del terremoto che colpì Fonzaso nel 1944. Nel suo barch dormivano in nove!

Erano luoghi in cui i giovani si appartavano per fare all’amore o semplicemente per scambiarsi qualche tenerezza, lontano da occhi indiscreti. Le tecniche di costruzione e di utilizzo di barch e méde, così come tutto il ciclo della fienagione rivelano una profonda conoscenza dei materiali, ad esempio del legno, un patrimonio di saperi che si è andato perdendo. Il ciclo della fienagione rimanda a raffinate conoscenze sul comportamento delle piante, alla capacità di leggere i segni del tempo, all’abilità nel controllo delle acque. I barch mostrano che la sperimentazione e gli adattamenti hanno sempre fatto parte della cultura contadina (i tetti di lamiera, i pali di ferro, i cambiamenti formali, il trasferimento di conoscenze legate alla viticoltura, come per es. l’immersione dei pali/stél nel verderame). Quando resistono, si trasformano sempre più in casette chiuse, per accogliere legna o strumenti in disuso. Sono ormai diventati simboli di una montagna marginale e di un territorio poco curato. Ci invitano oggi a riflettere sul valore diverso attribuito all’erba e al fieno, primari cercatissimi e preziosi e poi divenuti quasi scarti, ingombranti, difficili da smerciare perché è cambiata l’alimentazione dei bovini e si è ormai affermato un sistema di allevamento intensivo. Insieme ai gelsi e ai vigneti superstiti, che troviamo nel percorso individuato da Dolomiti HUB, evocano storie personali e famigliari, che sarebbe importante continuare a raccogliere, pensando a cosa possono ancora insegnarci parole, pensieri, gesti di chi ha vissuto in stretto contatto con la natura, in un ambiente difficile.

La fortuna di uno sguardo sul presente è un lavoro complesso, di impegno sempre nuovo e disponibilità al dialogo futuro. L’ascolto reciproco è il vero cuore di questa nostra visione, una finestra aperta sul mondo che permette rinnovate interpretazioni e visioni. Ma non vi è passato senza memoria e memoria senza cura; Nevio lo sapeva bene, ce lo ha insegnato e, camminando lontano, arriva a noi tutti, più vicino.

– ivan

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